Quasi sedici
anni, dal 1980 al 1996, spesi con soddisfazione e divertimento professionale,
seguendo le vicende dell’atletica italiana e internazionale. Un periodo
fortunato perché le prime trasferte in occasioni dei grandi eventi erano
accompagnate da eccellenti prestazioni della Nazionale italiana di atletica.
Europei di Stoccarda, Spalato e Helsinki, Mondiali di Roma, Tokyo, Goteborg,
Olimpiadi di Barcellona.
Il bello di questo sport, dovendolo raccontare, era la
varietà di storie umane con cui si poteva venire a contatto. E nella maggior parte
dei casi la disponibilità degli atleti a raccontarsi, a parlare, magari dopo
qualche mugugno legittimo perché della loro specialità si leggeva poco sui giornali
(i marciatori, ad esempio). E quando c’era l’occasione, oggi ormai impossibile,
di una trasferta condivisa meno importante e stressante (come l’indimenticabile
Coppa del Mondo di marcia all’isola di Man, per dirne una, con quell’istrionico
e simpatico personaggio che era allora Raffaello Ducceschi), nascevano legami
che consentivano un approccio più approfondito nel momento in cui poi c’era da
raccontare.
Sedici anni
di vittorie e sconfitte, speranze, medaglie vinte e medaglie mancate. Inutile
scrivere un elenco di nomi, diciamo che l’arco temporale andò da Sara Simeoni a
Fabrizio Mori, da Cova a Panetta, passando per Maurizio Damilano e Antibo,
Ileana Salvador e Didoni, Andrei e Lambruschini, Mei, Aouita, Lewis, Pavoni,
Bordin e Pizzolato, De Benedictis con cui si poteva parlare dei remix dei Kraftwerk.
Una vita fa, che ad un certo punto, tanti, ma tanti anni dopo, torna a galla.
Il masso che la teneva in fondo al mare delle esperienze vissute, si libera
della corda che lo tratteneva laggiù.
E pian piano
frammenti di quella vita lontana si riaffacciano. La gentilezza indimenticabile
di Sara Simeoni ed Erminio Azzaro in quella certa giornata alla Scuola di
Formia (con il giovanissimo interlocutore, non con una grande firma); la notte
dei lunghi coltelli del nostro mezzofondo dopo il Bislett di Oslo; l’irruzione
sotto la pioggia sulla pista del Neckarstadion di Stoccarda per il podio tutto
azzurro (roba d’altri tempi ormai); la chiacchierata nella stanza di Stefano
Mei dopo la più grande vittoria della sua carriera, il racconto di Totò Antibo,
seduti sugli scogli e sotto il sole di Spalato, la convulsa notte di Barcellona
con le squalifiche e le medaglie che andavano e venivano nella marcia, le due ore
ad aspettare la Ozoeze uscire dall’antidoping a Tokyo, padroni dei corridoi
dello stadio giapponese la mattina dell’oro di Damilano.
Le 80 righe di
intervista con Antibo rimasto in silenzio e scappato via dopo la triste notte
dei Mondiali ’91 E poi il mondiale in
casa, allo Stadio Olimpico romano che fin da bambino frequentavo andandoci a
piedi, su e giù per la De Amicis alberata.
Le crepe che si allargano: il salto allungato,
il doping che esplode. Elementi che poi attenuarono il rimpianto del distacco.
Si dice che
non bisogna mai guardarsi troppo indietro, perché la vita è adesso (pardon,
signor Baglioni, scusi la citazione). E non avevo alcuna intenzione di farlo.
Ma nella vita non sempre si può scegliere, certe cose succedono e basta.
Partire, lasciare. Ma anche tornare.
Dopo sedici
anni spesi diversamente, occorre riaffacciarsi nel mondo dell’atletica. Tutto è
cambiato. Io, loro, il lavoro, gli atleti, tutti. Niente è come prima ed è
anche normale.
Quello che
mi ha colpito però è stato il modo in cui ho ritrovato persone. Sedici anni ti
fanno dimenticare. Non sei più un volto, non sei più un nome.
Normale, logico.
Però è difficile da accettare per chi erroneamente pensa di dedicarsi a cose
importanti, cose che restano. Macchè. Ed è questa la lezione. Non bisogna mai
illudersi, tutto passa, tutto scorre. Cose note, ma un conto è leggerle un
conto è viverle.
Ed ora è
perfino divertente notare il diverso atteggiamento di persone che conoscevi e
frequentavi, con cui eri abituato a parlare al telefono.
Ricominciare da zero
non è semplice, come doversi presentare a qualcuno che conosci e che ti
conosceva. Siedi accanto a vecchie conoscenze per le quali hai smesso da tempo di esistere.
C’è chi ti riconosce con un sorriso, e allora
sembra che il tempo quasi non sia passato. C’è chi accende l’interruttore della
memoria e tutto riparte.
C’è chi ti
guarda e non ti vede. Invisibile anche a chi magari ha da qualche parte il
racconto delle sue gesta e delle sue parole che inizia col mio nome e cognome.
Così vanno
le cose. Importante è saperlo mentre si vivono. Tutto è relativo, ma serve la
seconda volta per capirlo, per rendersene conto quando dimentichiamo la giusta
distanza da tenere nei rapporti professionali.
E per fortuna può anche capitare
di trovare parole affettuose e gratificanti a distanza di migliaia di
chilometri, perché c’è anche chi non ha dimenticato. E addirittura si ricorda.
Sarà un caso che la memoria è donna?
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