BOXE Carmelo Bossi, campione umile


Carmelo Bossi se n’è andato domenica all’alba, all’età di 74 anni. Una complicazione polmonare lo ha messo ko per l’ultima volta, dopo che la vita era dolorosamente diventata un’altra cosa. Prima per l’ictus che lo aveva colpito vent’anni fa, poi per la scomparsa dell’amatissima moglie Anna, lo scorso agosto. La compagna di una vita che gli ha regalato le due figlie, Carla e Alessandra, e che gli è sempre al fianco, nei giorni felici ed in queli difficili della malattia. Ieri a Milano si sono svolti i funerali.
        In Italia si dimentica tutto in fretta, ma c’è stato un periodo in cui Carmelo Bossi è stato un pugile importante. Anche la sua figurina aveva trovato spazio nell’album che la Panini dedicava ogni anno ai campioni dello sport. Uno dei migliori che la boxe italiana abbia avuto, anche se sicuramente meno celebre e celebrato di tanti altri.
        Un po’ perchè vissuto nell’epoca di Nino Benvenuti e Bruno Arcari, ma anche per via di un carattere mite, che lo portava lontano dall’immagine stereotipata del pugile guascone e chiassoso. Poche parole, tanto lavoro in palestra e tanta umiltà. A parlare ci pensava il suo manager toscano, Libero Cecchi.
         Carmelo Bossi, milanese nato il 15 ottobre del 1939, ha vissuto la sua carriera senza andare sopra le righe ma condendo il suo pugilato con un’inesauribile voglia di lottare con tenacia, anche superando i limiti di una boxe che non gli aveva regalato della “castagna”, il colpo risolutore con cui si chiudono i match. Quaranta vittorie (solo 10 per ko), 8 sconfitte (2 per ko) e tre match pari: il suo ruolino da professionista. All’Olimpiade di Roma era arrivato dovendo cambiare categoria, salendo nei superwelter. Ai Giochi nei welter andò un certo Nino Benvenuti. La medaglia la presero entrambi: oro a Nino, argento per Carmelo.
        La lenta progressione fino al titolo italiano (1965), poi la corona europea (1967) contro il francese Josselin: allora la boxe era di alta qualità, c’erano fior di campioni, il mercoledì la Rai aveva spesso e volentieri una finestra in seconda serata, per portare nelle case degli italiani il grande pugilato, i titoli italiani, europei e mondiali.
        I match di Carmelo Bossi erano intensi e ruvidi, sempre generosi, talvolta poco fortunati. Come quando si ruppe la mascella difendendo il titolo europeo a Lignano, il 14 agosto del 1968, dall’assalto dell’olandese Edwin Mack che le prese per nove riprese ma poi trovò il colpo definitivo. Quella volta Carmelo, con la mascella rotta che lo costrinse poi ad un lungo periodo di recupero, fu costretto all’abbandono dopo dieci round, anche se era nettamente in vantaggio ai punti. Cercò invano di riprendersi il titolo europeo ma fu sconfitto dall’austriaco Johann Orsolics.
        Da professionista pensava già di aver chiuso senza poter arrivare al titolo mondiale, ma Rodolfo Sabbatini gli creò una insperata occasione. Il match della vita per la cintura mondiale Wba e Wbc dei superwelter. In quegli anni Sabbatini era il re degli organizzatori e dal suo ufficio romano che si affacciava su Piazzale Flaminio, riuscì ad “apparecchiare” la chance iridata per Bossi (9 luglio 1970: match allo stadio Sada di Monza, titolo in palio, 12.000 spettatori) contro il picchiatore afroamericano Freddy Little, che aveva già battagliato anche a suon di testate con Sandro Mazzinghi. 15 round selvaggi, l’esaltazione dell’agonismo, con Bossi sostenuto e trascinato dal grandissimo tifo dello stadio. L’anno dopo lo conservò con un pari con lo spagnolo non udente Jose Hernandez, per perderlo il 31 ottobre del 1971 a Tokyo, contro il giapponese Wajima alla fine di un match condizionato dalla gaffe del giudice statunitense, che commise un errore nell’assegnare un round. Carmelo Bossi disse basta dopo quel match. Aveva 32 anni.

Etichette: