VOLLEY Il mondo del volley piange Dejan Brdjovic

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Povero Dejan, una vita segnata dal dolore fino alla fine. Dejav Brdjovic è morto, a soli 49 anni, stroncato dal male che lo aveva colpito da tempo. Una bella carriera pallavolistica, la medaglia di bronzo conquistata alle Olimpiadi di Atlanta '96 ma funestata dalla tragedia familiare. Prima della semifinale contro l'Italia di Velasco, Dejan lasciò gli States perché suo figlio Marko, a soli 15 mesi, morì per un aneurisma. La prima volta che lo vidi giocare, ad Atene, al Palasport della Pace e dell'Amicizia, indossava la maglia biancorossa dell'Olympiakos Pireo, in occasione della final four di Coppa Campioni giocata dal Messaggero Ravenna. Un combattente autentico dimostrò di esserlo nella stagione, difficile, vissuta a Roma con la maglia biancoverde dell'Auselda. La guidò ad una salvezza miracolosa, autentico leader di una squadra fatta in fretta e tra mille difficoltà, con Claudio Giovanardi impegnato a non perdere la scommessa romana con una immediata retrocessione.
Vittorio Sacripanti era il direttore generale di quella Roma. «Dejan, un giocatore, un uomo straordinario» ribadisce commosso, apprendendo la notizia della sua scomparsa. 

Con intense parole è stato salutato da Vladi Grbic, compagno di tante partite in nazionale: «Quando cade un cavaliere con il quale ho passato tante battaglie muore anche una parte di me. Quella migliore....fatta di convinzione sudore sangue e lacrime. La piu sincera»

Dejan Brdjovic era nato a Zica, frazione di Kraljevo, in Serbia il 21 febbraio 1966. Sposato con Melena ed ha due figli, Aleksa di 21 anni e Aleksandra di 18. Entrambi giocano a pallavolo. Dopo sette anni alla Stella Rossa, giocò nell’Olympiakos Pireo, nell’Orestiada, quindi Auselda Roma, Stella Rossa, Asystel Milano, Loreto, Lube Macerata, Aek Atene, ancora Stella Rossa ed iniziando la carriera di allenatore- giocatore per un triennio nel 2004 col Radniki Kragujevac. Ha allenato l’Asystel Novara nel 2008 e poi il Rabita Baku, club dell’Azerbaigian. Medaglia di bronzo con la Jugoslavia all’Olimpiade di Atlanta ‘96, agli Europei ‘95 ed alla Coppa del Mondo ‘96.  Sotto potete rileggere articolo che gli dedicò il Corriere dello Sport il 4 gennaio del 2011, quando allenava il Rabita Baku femminile.


Questo l'articolo pubblicato 
dal Corriere dello Sport nel gennaio 2011

Oltre 300 partite con la nazionale della Jugoslavia, di cui fu a lungo anche il capitano, medaglia di bronzo all’Olimpiade di Atlanta. Dejan Brdjovic torna in Italia da avversario, ora allena il Baku, rivale domani sera della Scavolini Pesaro in Champions League. Un’altra puntata dei suoi duelli con Tofoli, due grandi campioni divenuti allenatori nel volley femminile. Dejan Brdjovic è uno di quelli col volley nel dna. Nacque a Žiča, appena 5000 anime, una frazione di Kraljevo. C’era una squadra di pallavolo in B1 e come tutti i ragazzini sognava di farne parte. Realizzò il suo sogno ma le sue qualità lo portarono presto nel grande volley, fino alla Nazionale. «Ma io sono rimasto il ragazzo di campagna che ero allora – sottolinea con orgoglio – Non mi sono montato la testa, non ho cambiato le mie abitudini, ho sempre coltivato le amicizie con semplicità ed umiltà. Devo ammettere che mi è dispiaciuto vedere alcuni campioni del mio Paese, certo molto più grandi di me, diventare superbi e scostanti, così lontani dalle loro radici». Nel volley ha ricoperto i ruoli di palleggiatore, poi schiacciatore, quindi opposto. Tre anni fa ha fondato a Kragujevac la Smec 5, di cui è patron e direttore tecnico, una specie di scuola di pallavolo per avvicinare ragazzi al volley e allevare talenti. Con Novara non si lasciò benissimo, ma senza polemiche, con signorilità. Ora preferisce ricordare il suo primo impatto con l’Italia.

CON MIRKO - «In Italia ho giocato tre campionati in A1, a Roma, Milano e Macerata. Ed ogni volta ero in squadra con Mirko Corsano. A Roma nell’Auselda giocava ancora come schiacciatore. Eravamo molto amici e molto legati, passavamo insieme moltissimo tempo. L’esperienza con l’Auselda Roma è stata forse una delle più esaltanti per me. La squadra era arrivata in A1 dopo aver acquistato i diritti di una B1. Era stata allestita con tanto coraggio, con giocatori provenienti dalle serie minori. Ricordo che con noi giocava anche Hristo Zlatanov, giovanissimo, preso dal Ravenna. Io stesso arrivavo a Roma dopo la tragica esperienza della morte di mio figlio Marko. Ero stroncato nell’animo, avevo perso molta della voglia di vivere che ho sempre avuto. Eppure l’esperienza romana, la vicinanza di persone vere come Mirko, mi fecero ritrovare me stesso e piano piano tornai a dare tutto ciò che avevo dentro, al limite delle mie possibilità di allora. Ricordo ancora qualche mia partita straordinaria con quella maglia, ma ricordo soprattutto la squadra, capace di compiere l’impresa di salvarsi e di arrivare addirittura ai play off. L’inizio non fu facile per me, soprattutto nei rapporti con l’allenatore Piero Molducci. Ero un opposto, mi faceva giocare in posto 4. Nel giro di un mese arrivammo al confronto, decidemmo che avrei giocato nel ruolo per cui mi avevano ingaggiato e da quegli screzi nacque un’amicizia basata sulla stima reciproca che dura ancora adesso». «Un giocatore, un uomo straordinario», ricorda Vittorio Sacripanti, dg di quella Roma.

E’ stato difficile trasformarsi in allenatore? «E’ molto diverso, da giocatore pensi a te stesso, alla tua prestazione ed anche quando le cose non vanno, dopo mezza giornata non ci pensi più, proprio ascoltando il tuo allenatore. E’ questa la differenza: il tecnico deve considerare tutto, deve pensare alla squadra, al singolo ed a come far rendere al meglio ogni giocatore. Difficile ottenere risultati se non si sa dialogare con i giocatori. Forse è proprio questo il vantaggio di chi allena dopo aver giocato, magari ad alti livelli: sa come parlare ai suoi giocatori perché spesso ha vissuto le stesse situazioni».  
Ha mai detestato un allenatore? «Ne ebbi uno che mi ordinò di fare cento tuffi consecutivi. Io li feci e poi gli chiesì il perché. Ma non mi rispose, non mi spiegò la ragione. Ecco, lui lo detestai, mi parve una persona che di pallavolo sapeva meno di me, non sapendo nemmeno motivare una sua richiesta. Invece quando trovavo un allenatore capace di farmi crescere nel fisico, nella consapevolezza. Mi dava subito fiducia e riuscivo ad esprimere il 120% di me stesso»



le foto in bianco e nero sono di Carlo Giuliani 



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